L’inflazione e i tassi di interesse applicati dalle banche centrali sono due elementi spesso connessi e in correlazione. E non è certo una coincidenza, sotto tale profilo analitico, il fatto che spesso vengano citati insieme in economia. Ma che cosa sono? E come “funzionano”?

Per comprenderlo in misura più opportuna, cominciamo con il ricordare che l’inflazione è il tasso di crescita dei prezzi dei beni e dei servizi, e che il tasso di interesse indica invece l’ammontare degli interessi che vengono pagati dal debitore al creditore, sulla base di quanto stabilito dalla banca.

Un esempio di interesse

Immaginiamo allora, in questo ambito di analisi preliminare, di depositare i nostri soldi in una banca: la banca utilizzerà i nostri soldi per poter fornire prestiti ad altri clienti. In cambio dell’utilizzo dei nostri soldi, la banca ci corrisponderà un interesse e, allo stesso modo, quando un cliente della banca utilizza i soldi dell’istituto di credito, pagherà alla banca un interesse. Pertanto, considerato quanto appena espresso, l’interesse è una somma di denaro che il debitore pagherà al prestatore di denaro, per il diritto di utilizzare quest’ultimo. Il tasso di interesse sarà invece la misura percentuale dell’interesse pagato, calcolato sulla base della somma di denaro ottenuta.

Un esempio di inflazione

Considerato che nel nostro focus odierno parliamo anche di inflazione, potrebbe essere utile altresì compiere un breve esempio anche su tale elemento. Ipotizziamo dunque che il livello dei prezzi dei prodotti offerti in un mercato sia cresciuto del 3% nel corso degli ultimi 12 mesi: questo significa che se durante il primo mese, per tutte le spese della casa, una famiglia ha speso 1.000 euro, nell’ultimo mese per potersi aggiudicare gli stessi prodotti ne spenderà 1.030.

Naturalmente, è ben chiaro che i prezzi dei singoli articoli potrebbero essere aumentati a tassi diversi, e addirittura alcuni prezzi potrebbero essere diminuiti. Tuttavia, in generale occorrerà risparmiare 30 euro al mese in più per potersi garantire lo stesso tenore di vita. Se il reddito familiare non aumenta di tale importo, si dovrà spendere di meno, sostituendo magari gli elementi meno costosi, o procedere con l’indebitamento.

Ancora, per poter comprendere quale relazione possa esistere tra il denaro, il tasso di interesse e l’inflazione, è altresì necessario comprendere la differenza tra il tasso di interesse nominale e quello reale. Il tasso di interesse nominale è quello che viene applicato dalle banche: ad esempio, se richiede un prestito, il tasso di interesse nominale è quella percentuale che, applicata al capitale oggetto di finanziamento, rappresenterà la somma da pagare per potersi aggiudicare il diritto ad utilizzarla (interesse). Il tasso di interesse reale corregge invece il tasso nominale per effetto dell’inflazione, andando così a mostrare quanto il potere d’acquisto varierà nel tempo.

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La teoria di Fisher

Irving Fisher stimò che il tasso di interesse reale sia indipendente dalle misure monetarie e in particolar modo dal tasso di interesse nominale. Per arrivare a ciò formulò l’equazione r = i – π, secondo cui il tasso di interesse reale (r) è pari al tasso di interesse nominale (i) meno il tasso di inflazione (π). Pertanto, se ricevete per i soldi in banca un tasso di interesse nominale del 3% all’anno (magari!), ma l’inflazione nel corso del prossimo anno aumenta il livello del prezzo dell’1%, in realtà il potere d’acquisto aggiuntivo determinato dal risparmio in banca sarà del 2%.

Da questa semplice inflazione si può desumere che se il tasso di interesse reale viene mantenuto costante, un incremento del tasso di inflazione dovrà essere accompagnato da un pari aumento del tasso di interesse nominale. Provando, così, che gli sviluppi monetari non potranno avere un effetto diretto sui prezzi, almeno nel lungo termine. Più in generale, quando i tassi di interesse si abbassano, è intuibile che più persone siano invogliate a indebitarsi: il risultato è che i consumatori hanno più soldi da spendere, determinando una crescita dell’inflazione e dell’economia. Il contrario è invece vero per i tassi di interesse in aumento: poiché i tassi di interesse sono cresciuti, i consumatori tenderanno ad essere meno invogliati a spendere, l’inflazione calerà e l’economia rallenterà.

Il FOMC e tassi di interesse

Ma chi stabilisce i tassi di interesse nel mercato interbancario? Sebbene in ogni macroarea ci siano degli istituti banchieri di riferimento, utilizziamo l’area dollaro e il FOMC come esempio per poter comprendere il meccanismo di base (lo stesso, con qualche differenza, avviene in area euro con la BCE).

Il FOMC, braccio monetario della Federal Reserve, si riunisce otto volte l’anno per poter esaminare le condizioni economiche e finanziarie, e decidere la propria politica monetaria. A sua volta, la politica monetaria è quel complesso di iniziative e di azioni che vengono intraprese dall’autorità di riferimento per poter influenzare la disponibilità e il costo del denaro.

Chiarito ciò (si tratta di una evidente semplificazione, ma per il momento ci “accontentiamo” di ciò), si può anche accennare al fatto che tra le principali azioni del FOMC vi sia quella di determinare il tasso di interesse a breve termine utilizzando l’analisi di indicatori economici come il PIL, i prezzi al consumo e i prezzi alla produzione, e così via. Muovendo i target di tasso di interesse in alto o in basso, la Fed cercherà di raggiungere il massimo impiego, la stabilità dei prezzi e una crescita economica stabile. Se quanto sopra vi è chiaro, allora dovrebbe esserlo altresì il fatto che la Fed incrementerà il tasso di interesse per poter ridurre l’inflazione, o diminuirà il tasso di interesse per poter accelerare l’inflazione e stimolare la crescita economica.

Le decisioni del FOMC sono naturalmente molto attese dagli investitori, dagli analisti e da tutti gli operatori di mercato, che spesso basano le proprie mosse sulle aspettative del comunicato post-riunione, pubblicato a margine del meeting.

Cosa succede con un’inflazione alta?

Illustrati i concetti fondamentali di cui sopra, possiamo chiudere questo nostro approfondimento cercando di riassumere che cosa accada in una condizione di inflazione elevata, e in una condizione di deflazione. In un contesto in cui i prezzi aumentano rapidamente, il potere d’acquisto – di contro – subirà una diminuzione, inducendo così le persone a tutelare il proprio tenore di vita domandando una remunerazione più elevata.

Al fine di compensare l’aumento della retribuzione, le imprese, a sua volta, incorporano l’aumento dei salari nei prezzi dei loro prodotti, con conseguente aumento dei prezzi, e generando così una spirale contraddistinta dal fatto che salari e prezzi finiranno con lo spingersi a vicenda. Il che, peraltro, non è un male (anzi): il problema è individuare un livello desiderato di crescita dell’inflazione (in area euro il target è di poco inferiore al 2% annuo) in maniera tale che si possa garantire una crescita economica sostenibile.

Cosa succede in caso di deflazione?

Se le banche centrali cercano di evitare una condizione di alta inflazione, è altrettanto vero che è (forse) più temuta la situazione opposta, la deflazione, in grado di produrre un significativo effetto negativo sull’economia. Se infatti le imprese e le persone iniziano ad astenersi dall’acquisto di beni nuovi, in particolare merci durevoli, a causa del formarsi di aspettative che in futuro gli stessi articoli costeranno di meno proprio a causa della pressione deflazionista, a generarsi è una potenziale depressione economica.

I prezzi dei prodotti in calo, se duraturi, tenderanno infatti a formare una spirale di conseguenze negative come il calo dei profitti delle aziende, la chiusura di molte realtà economiche, l’incremento del tasso di disoccupazione e la riduzione dei redditi personali, la crescita delle inadempienze sui prestiti da parte delle aziende e degli individui, e così via.

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